A che pro e che cosa dire ? Si scrive, si inventa e non si legge ! Una sera, durante un piacevole ricevimento in cui mia madre, con voce di dimante purissimo, cantava qualche aria d’opera, gravida di nove mesi, a non si quale battuta, presa da crampi e condotta all’ ospedale, dà alla luce Jean Philippe Robert Geenen, detto Jean Raine, il 24 gennaio 1927 a Bruxelles : un barilotto la cui fallace sana apparenza promette anni d’incanto. Errore che il seguito conferma ! Riccordi precoci e vivaci di tenerezza, d’affetto, di lussi, di maternità volutuosamente patologica. L’asilo mi appassiona. Amo lo studio e tuttavia... Anni elementari di tutto grigiore. Le pagelle scolastiche mensili instancabilmente dicono : "Allievo brillante, protrebe fare meglio". Che ci guadagno ad infischiearmene ? Ignoro il programma, sicuro di perdere più tardi con lo studio cio che guadagno istruendomi nei sogni.
Cosa fatta al liceo, poi all’università nel ventaglio degli interessi più incompatibili : una sete di sapere che coinvolge fino al rifiuto spezzante dei diplomi (paura, panico), ma guarantito da una solida cultura di base. Fino al quattordici anni leggo e rileggo Forton. La mia santa trinià ; Croquignol, La Filoche e dio padre Ribouldingue, del quale mi sento gia la barba mal rasata. Nel frattempo, giusta liberazzione, mio padre era precipitato nella tomba senza avere avuto il tempo di dire beh. Eccomi dunque a otto anni capofamiglia, al fianco d’un fratello che martirizzo ; ma ricco, ricco di denaro che la guerra del 1940 polverizza e di un capitale inesauribile d’estroversione,di un’insolita bontà per le spine crudeli. I miei amici di allora sono ancore i miei amici di oggi. Fra essi qualche buonomo d’ingegno : Luc de Heusch, Hubert Juin, il fisico Jean Pierre Stroot. Un morto anche, e qualche neuropatico incurabile. Inutile entrare nei particolari della fiesta chi conduciamo.
Un uomo diviene nostro complice : il nostro professore di francese, Fernand Verhesen, poeta e critico.
Senza transizione passo dal fumetto al grafismo elaborato di "Coup de é", della "Saison en Enfer", di "L’Ombilic des Limbes", di "Victor ou les enfants au pouvoir"... Mi metto freneticamente a versificare : timidamente a dipingere ; a pontificare. Ancore in pantaloni corti conosco Magritte, Scutenaire, Lecomte del gruppo surrealista belga, e tanti altri. Ghelderode mi ammalia e il tempo vola. Presto i vent’anni. Incontro capitale quello con Henri Langlois, e ne subisco il fascino. Eccomi prigioniero, e a lungo, nelle fitte maglie di quella rete magica che è la Cineteca Francese, la quale mi fa emigrare a Parigi. Vi sposo un attricetta (un disastro) e sdrucciolo dal clan surrealista belga a quello di Parigi. Breton che avevo sempre ammirato con il binocolo, visto da vicino mi delude e finisce per diventarmi veramente insopportabile. Non senza riserve, propendo per "Nord" che non è il suo, per Cobra, facendo svanire gli individui per conservarne solo le ombre.
Di questa mafia sopravvivono, uniche, due rocce di cio che fu il "Gruppo", densamente, quotidianamente presenti fino alla loro morte : Victor Brauner con l’occhio che ne valeva due, e Pierre Mabille con il quale realizzo il mio primo film, "Le Test du Village". Anni di miseria appassionante fra Bruxelles e Parigi dove Pierre Alechinsky, nel 1951, mi raggiunge. Egli incomincia ad affermarsi mentre io mi applico a vegetare, etica insolita ma che vale quanto un’altra. Imbianchino, commesso viaggiatore, apprendita stagnino, cineasta commerciale, ergofobo infaticabile ; tutte attività il cui rosario non dimeno è punteggiato di onorevoli sussulti, specialmente nel 1956, anno contrassegnato dalla realizzazione di un film in collaborazione con Luc de Heusch, su Michel de Ghelderode, e da qualche altra constellazione di punti indiscutibilmente luminosi ; film e, sopratutto quella lenta gestiazione dalla quale nascerà la mia pittura. 1962.
Ridivorzio, rimatrimonio e prima mostra presentata da Marcel Lecomte. Per quanto concerne il seguito e le mie omissioni di cui questo testo formicola. Basta.
Per quanto riguarda la mia pittura, troppo implicato per parlarne. Per decifrare in essa lacuni segni che mi revelino, pittore cieco, imparo senza vergogne a servirmi degli occhi altrui, bulinandone la rètina riflessa negli specchi.